Matrimonio di una bambina in India. Fonte: UNICEF. |
Il relativismo culturale è una delle conquiste dell'antropologia culturale. Il suo valore è immediatamente evidente se si considera il suo opposto: la convinzione che le nostre convinzioni, le nostre pratiche e i nostri valori siano gli unici giusti e quelli di tutte le altre culture siano errati, bizzarri o moralmente condannabili. Il relativismo consente quell'atteggiamento di apertura e di tolleranza senza il quale non è possibile alcun dialogo tra culture né, ovviamente, la comprensione di culture diverse dalle nostre.
Ma se non è difficile accettare che culture diverse dalle nostre abbiano diverse convinzioni religiose, pratiche matrimoniali o organizzazioni politiche, più difficile è accettare che in culture diverse dalle nostre si compia ciò che ai nostri occhi appare come una violenza inaccettabile.
È un problema che emerge spesso riguardo a soggetti come le donne, i bambini o le persone omosessuali. In Occidente sono stati tutti, in forme diverse, vittime di violenza e discriminazione sociale, ma hanno pure conquistato, in tempo recenti, molti diritti: la parità dei diritti con l'uomo, per le donne; il diritto di studiare e non lavorare, per i bambini; il diritto di non essere discriminati per le proprie preferenze sessuali per le persone omosessuali. In altre culture le cose vanno diversamente. In alcune culture, ad esempio, è ancora prevista la lapidazione per le donne adultere, o è negato alle donne il diritto di studiare, di essere economicamente autonome o di scegliere liberamente chi sposare. In alcuni contesti culturali le donne vengono sottoposte a mutilazioni genitali o costrette a sposarsi da bambine. Tutte queste pratiche appaiono, al nostro sguardo, come delle atroci violazioni dei diritti umani, ma dal punto di vista del relativismo culturale una simile condanna è etnocentrica. Così come non dovrebbe essere possibile giudicare la persecuzione delle persone omosessuali - che in alcuni Paesi sono perfino condannati a morte - o il lavoro dei bambini.
Il problema riguarda la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948. Essa intende essere, appunto, universale, ma molti rappresentanti di culture non occidentali l'accusano di riflettere la visione del mondo occidentale e in particolare il suo individualismo, e di rappresentare dunque una forma di colonialismo culturale.
Un problema emerge anche sul piano epistemologico. L'Occidente ha sviluppato una concezione della verità basata sull'osservazione, l'analisi razionale, l'esperimento, che sono alla base delle diverse scienze. Ma se tutto è culturalmente relativo, allora lo è anche la scienza occidentale. E dunque qualsiasi concezione può rivendicare lo stesso valore e la stessa dignità. Sul piano concreto, questo vuol dire riconoscere, ad esempio, a pratiche mediche sviluppatesi in altri contesti culturali, prive di qualsiasi validazione scientifica, lo stesso valore della medicina occidentale.
Il relativismo culturale tende peraltro a ridurre la diversità interna a una cultura ed a percepirla come un blocco. Pratiche che dall'esterno appaiono come espressione di una cultura in molti casi invece suscitano opposizioni e critiche anche all'interno di quella cultura, benché minoritaria. Soprattutto, l'atteggiamento relativista può condurre paradossalmente a posizioni di chiusura, quando non di razzismo. Se ogni cultura ha i loro valori, allora nessun dialogo è possibile, ed è bene che ogni cultura sia chiusa in sé. Questa convinzione può giustificare il razzismo differenzialista di chi sostiene che bisogna evitare che giungano immigrati provenienti da Paesi che hanno visioni culturali molto diverse dalle nostre, perché evidentemente non in grado di integrarsi in una cultura che non ha nulla in comune con la loro.
Testo di Antonio Vigilante. Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.