Introduzione all'antropologia culturale

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Antropologia filosofica e antropologia culturale

Fin dall'antichità gli esseri umani si sono interrogati non solo sul mondo - sulla sua origine, sulla sua struttura e sul suo senso - ma anche sulla loro stessa natura. Cos'è un essere umano? Che differenza c'è tra un essere umano e un animale? L'essere umano possiede un'anima? Ha un destino ultraterreno? E ancora: l'essere umano è naturalmente buono o cattivo? Perché compie il male? È libero oppure no? 

A queste ed altre domande dà risposta la religione. Nella visione ebraico-cristiana, ad esempio, l'uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza, concepito come coronamento della creazione che è stato chiamato a dominare. Ha tuttavia peccato, perdendo la sua originale perfezione; e ciò spiega la sua propensione al male. Tuttavia possiede anche la libertà necessaria per scegliere il bene.

Accanto alla religione e in polemica con essa compare però la filosofia. Essa nasce in Occidente tra il VII e il VI secolo a.C., con pensatori come Pitagora e Talete di Mileto, ma si possono individuare forme di riflessione critica anche in altre culture, come quella cinese e quella indiana. Ciò che caratterizza la filosofia è la distanza critica della tradizione religiosa e il tentativo di rispondere in modo autonomo da essa, usando la ragione e il confronto dialogico, alle domande fondamentali sull'uomo e il mondo.

L'antropologia filosofica è uno degli aspetti della filosofia. Il termine antropologia deriva dalle parole greche anthropos, uomo, e logos, studio. L'antropologia filosofica si interroga dunque sulla natura umana; cerca di capire chi è, in generale, l'essere umano.

Ma fin dall'antichità gli esseri umani hanno fatto esperienza anche della differenza. Si sono accorti, cioè, che se è possibile parlare di un essere umano in generale e in astratto, di fatto però esistono sempre esseri umani appartenenti a popoli particolari, e questi popoli possono essere molto diversi tra loro. L'atteggiamento più diffuso era di rifiuto. I greci chiamavano barbari i non greci, con un termine che dileggiava il balbettio delle loro lingue incomprensibili (e che dunque ripetono rozze sillabe come bar bar), ma anche i cinesi, che consideravano il loro Paese il Centro del mondo (Zhōngguó), avevano termini spregiativi per indicare i popoli che li circondavano.

Se l'antropologia filosofica si interroga dunque sulle caratteristiche generali dell'essere umano, ossia sulla sua natura, l'antropologia culturale invece lo considera dal punto di vista della sua particolarità e differenza: come appartenente sempre a un particolare contesto culturale. L'essere umano di cui si occupa l'antropologia culturale parla una lingua particolare, e ha credenze, usanze, rituali che gli vengono dal suo contesto. L'antropologia culturale analizza tutte queste differenze, anche confrontandole tra di loro - e dunque cercando anche somiglianze, ad esempio tra le usanze matrimoniali di diverse culture - ma riflette anche in generale sull'essere umano come produttore di cultura e sul significato della cultura stessa.

L'antropologia fisica

Lo sviluppo scientifico ha portato alla percezione dell'essere umano come una specie animale particolarmente evoluta, con una raffinata capacità di adattarsi all'ambiente e di trasformarlo. L'essere umano è dunque emerso dal mondo animale, attraverso una serie di passaggio graduali che non sono ancora del tutto chiari. L'antropologia fisica o biologica è la disciplina che studia l'essere umano dal punto di vista fisico, nelle diverse fasi della sua evoluzione. L'antropologo dunque in questo caso studia i resti ossei degli ominidi, le condizioni di vita, l'alimentazione e le malattie delle popolazioni antiche, le tracce del DNA e dunque le migrazioni dei diversi gruppi umani nelle diverse aree del pianeta.

L'antropologia fisica studia inoltre le differenze fisiche e biologiche attualmente esistenti tra i diversi popoli, studiando la variabilità genetica, lo sviluppo e la diffusione delle malattie, le differenze fisiche tra i diversi gruppi umani, misurate dall'antropometria, o ancora la relazione tra la salute e le abitudini alimentari.

Un ramo particolare dell'antropologia fisica è l'antropologia forense, che studia i resti umani in avanzato stato di decomposizione (quindi per lo più le ossa) allo scopo di identificare la vittima e di cercare di far luce sulle circostanze e le cause del suo decesso.

La cultura

L'antropologia di cui ci occuperemo è l'antropologia culturale, che possiamo definire come lo studio delle culture umano e dell'essere umano quale produttore di cultura
Centrale è, dunque, il concetto di cultura. Nel linguaggio corrente con questo termine si intende, coerentemente con la sua etimologia (da colere, coltivare), il risultato dell'azione dell'educazione e dell'istruzione. Una persona colta è una persona che ha studiato e ha letto molti libri; e cultura la produzione intellettuale e artistica: la letteratura e la poesia, la scienza, la musica, l'arte e così via.

In senso antropologico invece la cultura è tutt'altro. È l'insieme delle credenze e dei valori, delle conoscenze, delle norme, delle pratiche, degli artefatti e dei comportamenti propri di un gruppo sociale. In altri termini, la cultura è tutto ciò che ne costituisce l'identità. Dal punto di vista antropologico dunque nessuno è privo di cultura. Anche delle persone analfabete hanno una cultura; dal punto di vista antropologico hanno una cultura orale.

La cultura, così intesa, ha diversi aspetti:

  • I simboli. Ogni cultura ha un aspetto simbolico, intendendo con simbolo tutto ciò che indica altro. Comunemente si considerano simboli alcune immagini appartenenti a contesti religiosi o politici, come la croce o falce e martello, simboli rispettivamente del cristianesimo e del comunismo. Ma simbolo sono anche il linguaggio, così come valore simbolico hanno anche alcuni gesti (si pensi al saluto), alcune forme di movimento, come le danze rituali, e certi oggetti, come le medaglie o i trofei.
  • La condivisione.  Una cultura è condivisa da tutti i membri del gruppo sociale. Questa condivisione a dire il vero non è sempre totale. In alcuni contesti i valori culturali possono essere contestati, così come possono esistere sottoculture, ossia culture minoritarie, e controculture, ossia visioni culturali che si contrappongono apertamente alla cultura diffusa.
  • L'integrazione. In una cultura i diversi aspetti - ad esempio le pratiche religione, i riti funerari, l'organizzazione della famiglia e l'alimentazione - non sono slegati tra di loro, ma sono legati tra di loro e si influenzano a vicenda.
  • La trasmissione. I valori e le pratiche culturali vengono trasmessi attraverso l'educazione, in modo più o meno formale.
  • La normatività. Ogni cultura chiede ai propri membri alcuni comportamenti, che considera normali, e ne condanna altri, prevedendo anche sanzioni più o meno gravi per coloro che deviano, e che possono giungere fino all'allontanamento dal gruppo o all'uccisione.
  • Il cambiamento. Anche se le culture tendono a perpetuare sé stessa, nessuna cultura è immune dal cambiamento. Ogni cultura si trasforma, adattandosi ai cambiamenti e alle sollecitazioni, che possono venire dall'esterno - il contatto con altri popoli - o dall'interno, come una invenzione tecnologica (si pensi ai cambiamenti culturali provocati in Europa dalla disponibilità della carta e poi dall'invenzione della stampa).

È chiara, da quanto s'è detto, l'importanza della cultura. Essa fornisce ai membri di un gruppo sociale una visione del mondo completa, coerente, in grado di consentire la coesione sociale, di affrontare i problemi legati all'adattamento all'ambiente e di strutturare il tempo e le attività comuni.

Etnocentrismo e relativismo culturale

Proprio questa centralità e importanza della cultura fa sì che ognuno abbia, in modo più o meno consapevole, la convinzione della superiorità della propria cultura. Tendiamo a considerare strane le culture diverse dalla nostra, mano a mano che si allontanano da noi; e consideriamo con disgusto pratiche culturali estranee. Noi italiani siamo convinti, ad esempio, di avere la migliore cucina del mondo, ma anche di bere il caffè migliore. E consideriamo con disgusto ad esempio l'abitudine di mangiare grilli o cavallette, che appartiene a diverse tradizioni culinarie.

Questo atteggiamento in antropologia culturale si chiama etnocentrismoIl termine etnia indica un gruppo umano caratterizzato da una omogeneità culturale e fisica; l'etnocentrismo consiste nel considerare le culture diverse dalla nostra con un punto di vista centrato sulla nostra etnia. 

Legato a questo atteggiamento è la convinzione che esistano culture superiori e culture inferiori. Considerando la presenza o meno della scrittura o di una tecnologia avanzata o di grandi città, si ha la tendenza a operare una distinzione tra culture che hanno raggiunto un livello maggiore di evoluzione e culture arretrate. L'antropologia culturale rifiuta questa distinzione. Dal punto di vista dell'antropologo tutte le culture hanno la stessa dignità, senza che sia possibile porle su una scala evolutiva. Esse differiscono perché si sono trovare ad affrontare problemi diversi e diverse sfide ambientali.

All'etnocentrismo si contrappone in antropologia il relativismo culturale. Quando giudichiamo le usanze di una cultura diversa dalla nostra lo facciamo mossi dalla convinzione che i nostri valori siano universali. Per un antropologo le cose non stanno così: i valori sono sempre relativi a un contesto sociale e culturale; ogni cultura dunque ha i propri valori. Dal nostro punto di vista alcune pratiche di altre culture o sottoculture sono accettabili, ma lo stesso si può dire per i nostri valori e le nostre pratiche. Chi appartiene ad una cultura che riconosca grande valore agli anziani può trovare ad esempio incomprensibile l'esistenza di residenze per anziani, esattamente come noi possiamo trovare inaccettabile il lavoro minorile tollerato in alcuni contesti culturali.

Lo sguardo antropologico

La difficoltà nel comprendere il senso di alcune pratiche culturali dipende dal fatto che abbiamo uno sguardo esterno, che facilmente conduce al pregiudizio. Anche il ricercatore, nel momento in cui si avvicina a una cultura che può essere anche molto lontana dalla sua, ha inevitabilmente uno sguardo esterno. In antropologia si distingue un approccio etico da un approccio emico. La distinzione è stata fatta nel 1954 da Kenneth Pik, riprendendo e adattando la distinzione esistente in linguistica tra la fonetica (phonetics), ossia l'analisi dei suoni di una lingua dal punti di vista fisico, dalla fonologia (phonemics), che invece considera il modo in cui il suono viene percepito dai parlanti. Ugualmente in antropologia si definisce etico l'approccio dell'antropologo che analizza una cultura dall'esterno, cercando di coglierla in modo oggettivo, ricorrendo a categorie interpretative che possono essere applicate ad ogni cultura. Emico è invece lo sguardo interno a una cultura, ossia l'interpretazione di un fenomeno culturale che ne dà chi vi fa parte ed è dunque caratterizzato da un forte investimento di significato.

Per fare un esempio, nello studio di un fatto culturale come una feste religiosa italiana (quale ad esempio la festa di Sant'Agata a Catania), il punto di vista emico è quello dei catanesi che prendono parte alla festa, magari con un ruolo di primo piano, ed è dunque fortemente emotivo, mentre quello etico, dell'antropologo, cerca di cogliere il significato di quella manifestazione analizzandola in modo distaccato come espressione del sacro popolare.

I due sguardi sembrano in conflitto, ma in realtà non si oppongono, ma si integrano a vicenda. L'antropologo non può non tener conto del punto di vista di chi è immerso nella cultura che sta studiando, ma al tempo stesso il suo punto di vista esterno può consentire di cogliere tratti e significati di quella cultura che sfuggono a chi vi è immerso, proprio per il suo coinvolgimento emotivo.

Campi di indagine dell'antropologia culturale

Nata come studio delle società allora considerate primitive, l'antropologia culturale è oggi una disciplina che si occupa di qualsiasi cultura, comprese le culture delle società industriali e delle economie più avanzate. La complessità delle culture fa sì che si possano distinguere diversi campi di indagine, a seconda degli aspetti della cultura e dell'organizzazione dei gruppi sociali analizzati:

  • Antropologia della parentela. Studia i sistemi di parentela presenti nelle diverse culture, e dunque le pratiche matrimoniali (monogamia, poliginia, poliandria), le regole di esogamia ed endogamia (se ci si sposa fuori o dentro il proprio gruppo sociale) e i sistemi di alleanze matrimoniali, i termini per designare i vari parenti, i modelli di residenza (dove vanno a vivere gli sposi), le linee genealogiche (la trasmissione del cognome ai figli), le regole di eredità.
  • Antropologia economica. Studia i sistemi economici e le pratiche di produzione, distribuzione e consumo in diverse culture, considerando sia economie tradizionali che moderne.
  • Antropologia politica. Studia le forme di organizzazione sociale e politica nelle diverse culture, le pratiche di governo, le forme di potere e la soluzione dei conflitti sociali.
  • Antropologia della religione. Studia le pratiche religiose e le credenze, interrogandosi sul significato sociale della religione, sul senso del sacro, sul rapporto tra religione e potere e in generale sul significato della religione per la vita sociale.
  • Antropologia medica: Indaga le pratiche di salute e malattia, inclusi i sistemi di cura tradizionali e biomedici, e come questi sono influenzati dalle dinamiche culturali.
  • Antropologia Urbana: Studia la vita nelle città e i fenomeni urbani, tra cui migrazioni, insediamenti informali e la diversità culturale in contesti metropolitani.

Il metodo dell'antropologia culturale

La base dell'antropologia culturale è l'etnografia, ossia lo studio sul campo di una cultura, al fine di raccogliere informazioni di prima mano sulle quali poi l'antropologo potrà compiere il suo lavoro analitico e interpretativo. Attraverso l'osservazione partecipante l'antropologo partecipa attivamente, per un periodo ragionevolmente lungo, alla vita di una comunità, in qualche caso imparandone anche la lingua, e cercando di calarsi il più possibile in essa, avvicinandosi al punto di vista dei nativi. Al tempo stesso, osserva e registra ciò che vede, servendosi di diari dettagliati, ma ricorrendo anche a strumenti come la macchina fotografica o la telecamera. 

Importante è l'intervista fatta a soggetti significativi della cultura che si sta studiando, chiamati informatori, che è preziosa per cogliere il punto di vista emico. L'antropologo però può ricorrere anche a strumenti quantitativi, come l'analisi statistica. Un campo particolare è quello dell'antropologia visuale, che si concentra sulla produzione di materiale fotografico, audiovisivo e digitale per documentale una realtà culturale.

Raccolti i dati, l'antropologo passa poi ad analizzarli. Per farlo ricorre alla comparazione, confrontando un singolo fatto culturale con altri simili appartenenti a culture anche lontane allo scopo di cogliere analogie e differenze, e a una visione teorica, che gli consente di inquadrare ciò che sta studiando in una concezione più ampia della cultura. È importante inoltre che si muova sempre in dialogo con le altre discipline, in particolare la psicologia, la sociologia, la storia e l'economia.

L'antropologia culturale oggi

In una società globalizzata, caratterizzata da importanti movimenti migratori, la figura dell'antropologo culturale è sempre più richiesta in vari settori. Ad esempio nella cooperazione allo sviluppo, lavorando con organizzazioni internazionali per progettare e implementare programmi di sviluppo che rispettino le culture locali; nella sanità, contribuendo alla progettazione di interventi sanitari che tengano conto delle pratiche e delle credenze riguardo alla salute e alla malattia; nel marketing, aiutando le aziende a comprendere meglio i mercati locali e le preferenze dei consumatori e a progettare prodotti e servizi che siano culturalmente rilevanti e attraenti per diverse popolazioni; nel campo dei diritti umani, nell'ambito delle organizzazioni che lottano contro le discriminazioni culturali; nella soluzione nonviolenta dei conflitti culturali, portando il proprio contributo alla comprensione reciproca; in campo educativo, offrendo indicazioni per rendere i sistemi educativi e scolastici aperti alla differenza culturale; in campo urbanistico, facilitando processi partecipativi che coinvolgano i residenti nella progettazione e nella pianificazione delle loro aree urbane, e così via.

In tutti questi settori, come nella ricerca, l'antropologo culturale lavora in modo interdisciplinare, confrontandosi di volta in volta con sociologi e psicologi, medici ed epidemiologi, urbanisti e politici, economisti e scienziati, giuristi e attivisti sociali.


Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-NC-ND.

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