John Dewey


John Dewey nasce a Burlington, nello stato del Vermont, nel 1859. Studia prima all’UniversitĆ  del Vermont e poi alla John Hopkins di Baltimora, dove ha come maestro l’hegeliano George S. Morris. Dopo aver insegnato all’UniversitĆ  del Michigan, nel 1894 passa all’UniversitĆ  di Chicago, appena fondata. La sua formazione intellettuale si completa con la conoscenza del pensiero di William James e grazie alla collaborazione con George H. Mead, passando dall’iniziale hegelismo al pragmatismo. L’interesse per le questioni educative lo porta alla fondazione di una Scuola-Laboratorio annessa all’UniversitĆ  di Chicago ed ispirata a principi educativi innovativi, approfonditi ne Il mio credo pedagogico (1897) e in Scuola e societĆ  (1899). Nel 1905 passa ad insegnare alla Columbia University di New York, dove resterĆ  fino al 1929. qui giunge a maturitĆ  il suo pensiero filosofico, esposto in volumi quali Come pensiamo (1910), Democrazia e educazione (1916), Ricostruzione filosofica (1920), Natura e condotta dell’uomo (1922), Esperienza e Natura (1925), La ricerca della certezza (1929), Le fonti di una scienza dell’educazione (1929).

Alla vigilia della prima guerra mondiale si schiera in favore dell’intervento degli Stati Uniti. In questo periodo compie viaggi in Giappone e Cina, in Turchia e nella Russia comunista, che gli consentono di approfondire la conoscenza di sistemi politici e sociali diversi da quello americano. Dopo il pensionamento continua la sua attivitĆ  di ricerca, pubblicando alcune delle sue opere fondamentali – tra queste: Il pubblico e i suoi problemi (1927), Logica. Teoria dell’indagine (1938), Esperienza e educazione (1938) – e si impegna politicamente sul fronte progressista e dei diritti umani. Sono gli anni della Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street (1929), che scuote dalle fondamenta la democrazia americana, mentre in Europa avanzano i fascismi. Lo sforzo di Dewey ĆØ quello di riaffermare i valori democratici con una particolare attenzione ai temi sociali ed ai diritti civili, che lo porta a chiedere, insieme ai piĆ¹ noti intellettuali progressisti americani, un nuovo processo per gli anarchici italiani Sacco e Vanzetti* ed a presiedere nel 1937 una commissione d’inchiesta (che sarĆ  chiamata Commissione Dewey) per esaminare le accuse mosse a Leon Trotsky, espulso ed esiliato dalla Russia comunista per la sua opposizione alla politica di Stalin. In occasione della seconda guerra mondiale si schiera nuovamente a favore dell’intervento degli Stati Uniti. 
Muore nel 1952.

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti  erano due emigranti italiani di fede anarchica, come tali sotto osservazione da parte degli agenti segreti americani. Nel 1920 furono accusati dell'omicidio a scopo di rapina di un cassiere e di una guardia giurata. Nonostante l'assenza di prove contro di loro, i due anarchici vennero condannati alla sedia elettrica; la condanna fu eseguita il 23 agosto 1927.

Superare l’incertezza 


Possiamo considerare quale punto di partenza ideale per esplorare il pensiero di Dewey alcune considerazioni sull’esistenza umana esposte in Esperienza e Natura (1925), una delle sue opere filosofiche piĆ¹ mature. Il carattere piĆ¹ evidente della condizione umana, osserva Dewey, ĆØ quello della sua precarietĆ  ed instabilitĆ . In qualsiasi momento l’essere umano ĆØ esposto al pericolo, nel bel mezzo della felicitĆ  puĆ² essere travolto dalla malattia o dalla morte, cosƬ come precari sono il suo successo in societĆ  e la fortuna economica. L’essere umano ĆØ un essere fragile, la cui vita costituisce un azzardo, un rischio continuo; il suo problema principale ĆØ quello di rendere piĆ¹ stabile la sua esistenza. 
Un primo tentativo di soluzione di questo problema sono la religione e la magia. L’uomo si illude di dominare il suo destino attraverso i cerimoniali religiosi e i rituali magici, facendo sacrifici agli dĆØi, cercando di ingraziarsi le forze della natura. Una soluzione piĆ¹ raffinata ĆØ quella della filosofia. Fin dalla sua nascita, la filosofia cerca di rassicurare, di mitigare l’angoscia esistenziale, di costruire un mondo stabile in cui rifugiarsi. La vita umana naturalmente non ĆØ fatta solo di elementi di incertezza e di instabilitĆ , ma anche di cose stabili, positive, solide. Nell’esperienza comune le due cose sono strettamente, indissolubilmente legate. 
La filosofia, al di lĆ  delle sue correnti e delle sue apparenti alternative, ĆØ caratterizzata da un procedimento di fondo: gli aspetti stabili e solidi dell’esistenza vengono separati da quelli instabili e vanno a costituire un mondo superiore, considerato l’unica vera, piena realtĆ ; tutti gli elementi di instabilitĆ  ed incertezza vengono invece declassati ad apparenza, confinati in un livello inferiore di realtĆ  (qualcosa di non troppo diverso accade con le filosofie del divenire, che da Eraclito a Bergson ed Hegel hanno reso stabile e razionale il divenire stesso). 
La filosofia costruisce dunque un mondo perfetto, pienamente buono, con tutti gli elementi positivi dell’esistenza, e proclama questo mondo perfetto quale realtĆ  autentica. Questa soluzione per Dewey non ĆØ meno illusoria di quella religiosa o magica. L’incertezza dell’esistenza non ĆØ apertamente combattuta; l’uomo viene piuttosto distratto da essa proponendogli l’orizzonte di un mondo perfetto, sia esso un mondo dei fini ideale o una realtĆ  soprannaturale. Una tale separazione tra una realtĆ  superiore ed una realtĆ  inferiore, con il discredito che getta sull’esperienza quotidiana, ha conseguenze gravi.
Esistono due forme di esperienza: un’esperienza grezza, primaria, che comprende ciĆ² che gli uomini fanno nella loro vita quotidiana, ed un’esperienza secondaria, piĆ¹ raffinata, passata al vaglio della riflessione. Ora, la filosofia dovrebbe aiutare le persone ad orientarsi meglio nella loro vita quotidiana. CiĆ² non accade; al contrario: essa getta “una cappa di oscuritĆ  sulle cose dell’esperienza ordinaria”. La filosofia svaluta l’esperienza quotidiana come appartenente ad una dimensione inferiore, ed in questo modo rinuncia al ruolo stesso di guida e di orientamento della vita comune che dovrebbe avere. Questo ĆØ ciĆ² che accade con quelle che Dewey chiama filosofie non-empiriche.
Le conseguenze negative di questo atteggiamento sono tre. La prima ĆØ che le conclusioni filosofiche non vengono verificate. La seconda ĆØ che l’esperienza quotidiana non viene arricchita ed ampliata grazie al contributo della filosofia. La terza conseguenza ĆØ che la filosofia, perso il contatto con l’esperienza, si fa astratta e fine a se stessa. “Come risultato netto di questi tre inconvenienti – scrive Dewey – noi troviamo quello straordinario fenomeno che rende ragione dell’avversione nutrita da molte persone coltivate per ogni forma di filosofia.”
La filosofia che segue il metodo empirico si caratterizza per il ritorno all’esperienza primaria, ossia per il contatto costante con la vita quotidiana e le necessitĆ  dell’individuo e della societĆ . Il problema di rendere piĆ¹ stabile l’esistenza ĆØ affrontato dalle filosofie non-empiriche su un piano teorico, e viene risolto costruendo una realtĆ  avente tutti i caratteri della stabilitĆ , che all’uomo non resta che contemplare. Da una filosofia empirica invece il problema viene correttamente posto come un problema pratico. Il pensiero deve contribuire a rendere concretamente piĆ¹ stabile l’esistenza, dando all’esperienza quotidiana il contributo dell’analisi razionale. Il pensiero ha dunque un carattere pratico e strumentale: per questo Dewey adopera per indicare la propria filosofia il termine strumentalismo. Attraverso il pensiero, l’uomo riesce a rendere piĆ¹ stabile, meno incerta e pericolosa la sua realtĆ . Ma la realtĆ  umana non ĆØ separata da quella naturale. L’uomo ĆØ immerso nella natura, ne fa parte pienamente, ed il suo stesso pensiero ĆØ un’espressione della natura. L’attivitĆ  con la quale l’uomo rende meno incerta la sua esperienza ĆØ dunque, al tempo stesso, un’attivitĆ  con la quale la natura stessa viene condotta ad un livello piĆ¹ alto di organizzazione.
Nel pensiero di Dewey la natura perde qualsiasi carattere di perfezione e di divinitĆ , ĆØ una realtĆ  complessa e contraddittoria, sospesa tra positivo e negativo, tra stabilitĆ  ed incertezza, esattamente come l’esistenza umana. E come l’esistenza, la natura puĆ² essere resa piĆ¹ stabile attraverso il pensiero e l’indagine razionale. Usualmente, osserva Dewey, l’esperienza e la natura vengono considerate realtĆ  diverse e contrapposte. L’esperienza umana comprende cose come l’arte, l’etica, gli ideali umani, che poco o nulla incidono sulla natura, vista ora come realtĆ  indipendente dall’uomo e regolata da meccanismi propri. Per Dewey invece ogni considerazione puramente meccanicistica della natura ĆØ riduttiva: “Se l’esperienza presenta realmente tratti estetici e morali, allora questi tratti possono anche essere considerati depositari di un rapporto profondo con la natura e testimoni di qualche cosa che appartiene alla natura con la stessa veritĆ  con cui vi appartiene la struttura meccanica attribuitale nella scienza fisica”, scrive. Il che non vuol dire spiritualizzare o idealizzare la natura, ma considerarla aperta al contributo dell’esperienza umana, che ĆØ fatta anche di spiritualitĆ  e di ideali.
Per questa visione unitaria dell’esperienza e della natura, che risente dell’influenza di Hegel e che, pur ritenendosi empirica, si allontana dal concetto di esperienza dell’empirismo classico poichĆ© considera l’esperienza come la totalitĆ  della realtĆ  umana nel suo rapporto con la natura, e non solo come pura conoscenza del mondo esterno, Dewey conia la definizione di umanismo naturalistico. Dell’umanismo ha le caratteristiche della ricerca razionale di migliori condizioni di vita, ma questo miglioramento non riguarda piĆ¹ solo la realtĆ  umana, bensƬ incide sulla natura stessa.
Esiste una sola realtĆ , fatta di natura ed esperienza, di corpo e di mente, che cerca dinamicamente il proprio equilibrio. Non ĆØ possibile credere che il dinamismo che caratterizza l’universo debba sfociare in un equilibrio finale, condurre progressivamente ad una situazione di perfezione. Sarebbe anche questa una concezione consolatoria e mistificatrice del divenire, non diversa da quelle che Dewey critica nella storia della filosofia. Bisogna invece essere consapevoli della possibilitĆ  di rendere meno instabile la natura attraverso il contributo dell’esperienza umana, realizzando di volta in volta situazioni di equilibrio che non sono mai definitive, ma richiedono il costante intervento dell’esperienza e della riflessione.

L’indagine e i valori


Se, come abbiamo visto, il pensiero non ĆØ pura attivitĆ  teorica, ma ha un valore pratico, allora la logica, che tradizionalmente si occupa di formalizzare il ragionamento e stabilire le regole del pensiero, acquisterĆ  un significato diverso. Essa riguarderĆ , cioĆØ, il modo in cui gli esseri umani, attraverso il pensiero, possono rendere meno precaria la propria esistenza ed affrontare in modo razionale i propri problemi. Nella sua opera Logica. Teoria dell’indagine (1938) Dewey considera l’indagine (inquiry) come quel procedimento che, partendo da una situazione di incertezza, giunge a trasformarla rendendola infine stabile. La considerazione di questa situazione consente di mettere a fuoco un problema, che ĆØ giĆ  un passo oltre la semplice confusione iniziale. Invidividuato il problema, si presenta giĆ  un’idea, ossia una anticipazione riguardo ciĆ² che potrebbe accadere. Occorre tener presente che questa idea non ĆØ una semplice rappresentazione della realtĆ , ma ha a che fare con la trasformazione possibile delle cose; ha, in altri termini, un carattere operazionale. L’idea viene approfondita quindi attraverso il ragionamento, che evidenzia le conseguenze possibili dell’idea mettendola in rapporto con altre idee. Questo lavoro intellettuale mette capo ad una ipotesi di soluzione del problema, che tuttavia dovrĆ  essere messa alla prova con l’osservazione e l’esperimento, dopo i quali soltanto ĆØ possibile giungere al giudizio finale, che per Dewey ha un valore definitivo, rappresenta la soluzione non piĆ¹ discutibile della situazione problematica iniziale.
CosƬ descritto, puĆ² sembrare un procedimento da laboratorio, avulso dalla concretezza della vita quotidiana e dei suoi problemi. L’intento di Dewey ĆØ, al contrario, quello di fare della scienza non un procedimento specialistico, ma un modo di affrontare l’incertezza che caratterizza la vita dei singoli e delle comunitĆ  nel modo piĆ¹ intelligente.
Ma se le idee hanno un carattere operativo, servono cioĆØ a intervenire sulla realtĆ  per trasformarla, che ne sarĆ  dei valori? Le filosofie dei valori (ad esempio quella di Max Scheler) tendono a considerarli delle realtĆ  immutabili, compiute, non sottoposte alla ricerca ed all’indagine umane, ma coglibili con un semplice atto di intuizione. Per definizione, i valori sono assoluti, non negoziabili, non riducibili. Per Dewey le cose vanno diversamente. La creazione di un regno dei valori, separato dal mondo naturale e ad esso sovraordinato, ĆØ un momento di quel procedimento che giĆ  abbiamo visto di separazione degli aspetti solidi dell’esistenza da quelli incerti. Una volta separati dal mondo i valori diventano assoluti. Se si supera la distinzione artificiosa tra le due realtĆ , quella naturale e quella dei valori, questi ultimi appaiono come sono: non degli assoluti, ma realtĆ  “instabili come le forme delle nuvole”.
Questo non vuol dire che i valori non siano importanti. Vuol dire invece che, come tutto, i valori non possono essere sottratti all’indagine razionale e critica. I valori non vanno adorati con una sorta di fede etica o estetica, ma considerati attentamente nella loro origine e nelle loro conseguenze. “Ogni teoria del valore ĆØ necessariamente un ingresso nel campo della critica”, scrive Dewey in Esperienza e Natura. Questa critica dei valori, questa considerazione dall’alto dei beni e dei fini, ĆØ il compito della filosofia.
Essa analizza i singoli valori nelle loro cause e nelle loro conseguenze, li mette alla prova, li passa al vaglio della riflessione. Sembra che in questo modo la filosofia rinunci al suo carattere teoretico per svilirsi nella pratica. Dewey nota invece come la filosofia conquisti in questo modo una nuova responsabilitĆ  ed importanza, perchĆ© diviene la via maestra per conseguire “lo scopo comune di tutti gli uomini”, che ĆØ “la migliore, piĆ¹ ricca e piĆ¹ piena esperienza”.

La democrazia 


L’inevitabile conseguenza politica delle idee che abbiamo appena visto ĆØ la difesa della societĆ  democratica. Per decidere quale tipo di societĆ  ĆØ ideale, scrive Dewey in Democrazia e educazione (1919), non bisogna procedere astrattamente, in via teorica, ma analizzare le societĆ  esistenti e vedere quali sono, in esse, gli aspetti desiderabili. Da questa analisi emergono due aspetti: gli interessi comuni e l’interazione con altri gruppi. Tra le societĆ  esistenti, appaiono meglio organizzate quelle nelle quali i membri hanno molti interessi comuni ed esiste uno scambio vivo e continuo all’interno dei gruppi sociali e con l’esterno. Questo non ĆØ naturalmente possibile in una dittatura, nella quale il governo ricorre abitualmente alla paura come strumento di controllo dei sudditi ed attua una separazione sociale che impedisce la consapevolezza di interessi comuni, chiudendosi al contempo nei confronti dell’esterno. Solo la democrazia rende possibile lo scambio, la comunicazione, l’arricchimento dell’esperienza, la riconsiderazione dei fini e dei valori. Essa sola consente, in altri termini, quella esperienza ricca che per Dewey ĆØ lo scopo di tutti gli uomini, mentre nei sistemi non democratici la ricerca ĆØ bloccata, i valori diventano assoluti e vengono imposti, la filosofia da critica diventa ideologia.
CosƬ caratterizzata, la democrazia non ĆØ soltanto una forma di governo, ma “prima di tutto una forma di vita associata, di esperienza continuamente comunicata”. ƈ per questa ragione che, come meglio vedremo, la democrazia ha un legame indissolubile con l’educazione.

L’educazione come processo di vita 


Una prima formulazione delle idee pedagogiche di Dewey, legata alla sperimentazione della Scuola-Laboratorio di Chicago, ĆØ nello scritto Il mio credo pedagogico del 1897, che ebbe una vasta risonanza e suscitĆ² accesi dibattiti. L’educazione, vi sostiene Dewey, ha due aspetti fondamentali: uno sociologico e uno psicologico. Da una parte essa conduce l’individuo a far parte della societĆ , dall’altra si occupa dello sviluppo pieno delle sue facoltĆ  e possibilitĆ . In passato, l’adattamento dell’individuo alla societĆ  poteva fare a meno della psicologia, poichĆ© la societĆ  era sostanzialmente statica. Ora, osserva Dewey, le cose sono diverse: con l’avvento della societĆ  industriale nessuno puĆ² sapere esattamente a quale tipo di societĆ  adattare l’educando, poichĆ© nel volgere di un ventennio la societĆ  si trasforma radicalmente. Stando cosƬ le cose, l’unico modo efficace per preparare il fanciullo alla vita futura ĆØ quello di sviluppare tutte le sue capacitĆ , in modo che sappia da solo adattarsi ai cambiamenti, e ciĆ² ĆØ impossibile “se non si tien conto di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell’individuo, cioĆØ se l’educazione non ĆØ costantemente convertita in termini psicologici”.
L’idea stessa dell’educazione come preparazione alla vita futura dev’essere rivista a fondo. La scuola tradizionale trasferisce una serie di nozioni che non hanno alcun contatto con la vita attuale degli allievi, e che si pretende che abbiano a che fare con il suo futuro. Ma, avverte Dewey, se non c’ĆØ un contatto con la vita attuale non c’ĆØ vera educazione. L’educazione ĆØ “un processo di vita e non una preparazione al vivere futuro”. Il che vuol dire che la scuola deve avere a che fare con la vita attuale dell’allievo, con il suo ambiente, con le sue esperienze. Nella societĆ  complessa, il bambino non puĆ² partecipare alla vita sociale senza provare smarrimento. Il compito della scuola ĆØ allora quello di semplificare la realtĆ  sociale, di riprodurla su scala minore, ma senza alcuna separazione dal mondo esterno; in essa dev’esservi “una vita altrettanto reale e vitale di quella che egli conduce a casa, nel vicinato o nel recinto dei giochi”.
Una scuola cosƬ intesa ĆØ una comunitĆ  vitale, nella quale i bambini imparano a lavorare insieme agli altri, ed ĆØ in questo modo, e non per la disciplina imposta dall’alto dal docente, che si formano moralmente. Il punto di partenza dell’istruzione sono le attivitĆ  sociali dei bambini. I contenuti disciplinari vengono introdotti via via che si rendono necessari per approfondire e chiarificare l’esperienza.
Particolare importanza Dewey attribuisce alle attivitĆ  manuali ed artigianali per il loro evidente carattere sociale. Esse non vanno concepite come attivitĆ  aggiuntive o di svago, ma come occupazioni primarie, che possono anche facilitare il pasaggio allo studio di discipline piĆ¹ astratte. Quanto all’insegnante, il suo compito diventa particolarmente delicato. Egli non ĆØ piĆ¹ colui che trasmette nozioni, ma un attento conoscitore della psicologia del bambino ed un osservatore non meno attento della realtĆ  sociale, in grado di promuovere lo sviluppo individuale e, attraverso di esso, sia l’ordine che il cambiamento sociale. Il mio credo pedagogico si chiude con la suggestiva affermazione che “l’insegnante ĆØ sempre il profeta del Dio vero e l’annunciatore del vero regno di Dio”. Una conclusione che va interpretata tenendo presente la religiositĆ  laica di Dewey, che non solo rigetta qualsiasi posizione confessionale, ma rinuncia anche al soprannaturalismo.
Approfondendo le implicazioni delle idee fin qui esposte in Scuola e societĆ  (1899), Dewey parla di una vera e propria rivoluzione copernicana dell’educazione. La vecchia educazione pone il centro di gravitĆ  fuori dal fanciullo, nel maestro o nel programma scolastico, con il risultato di rendere passivi gli studenti. Con la nuova educazione invece “il fanciullo diventa il sole intorno al quale girano gli strumenti dell’educazione”. Una rivoluzione che comporta anche una riconsiderazione del setting scolastico. L’aula con le file di banchi ĆØ pensata per un’educazione meccanica, uniforme, che tratta le persone come massa, e non come individui, cosƬ come uniformi sono i programmi, i saperi concentrati nel libro di testo, con la loro considerazione quantitativa degli apprendimenti corrispondenti ad ogni etĆ  e ad ogni classe. ƈ una scuola dell’ascoltare, piĆ¹ che del fare.
Un aspetto che ĆØ importante evidenziare ancora ĆØ quello della valorizzazione del lavoro manuale, o per meglio dire del superamento dello iato tra cultura manuale e cultura intellettuale. La scuola tradizionale, tutta intellettuale, non conosce la collaborazione: “Dove il lavoro della scuola consiste unicamente nell’apprendere lezioni, la mutua assistenza, invece di essere la forma piĆ¹ naturale di cooperazione e di associazione, diventa uno sforzo clandestino di alleggerire il vicino dei suoi doveri”. Con il lavoro manuale penetra invece nella scuola lo spirito della collaborazione, del fare comune, la percezione della appartenenza ad una stessa comunitĆ , al di lĆ  delle differenze di classe. Si obietta che l’introduzione del lavoro nella scuola tenderebbe alla specializzazione professionale, a danno della formazione generale, umanistica. Ma questa obiezione, nota Dewey, ĆØ giĆ  di per sĆ© il risultato di una specializzazione, quella che riduce la cultura alla sola formazione intellettuale, escludendo il fare, la produzione, la creazione. Si separa la cultura umanistica dalla formazione al lavoro e si impronta interamente la scuola alla prima. Il risultato ĆØ l’abbondante abbandono scolastico, che si spiega con il semplice fatto che pochi hanno la vocazione intellettuale, mentre ben piĆ¹ diffusa ĆØ l’inclinazione al fare.

L’educazione democratica 

Nel suo capolavoro pedagogico, Democrazia e educazione, Dewey riprende ed approfondisce il tema della scuola come luogo in cui l’ambiente sociale viene semplificato ed adattato alle esigenze dei soggetti in formazione. La scuola, precisa, ha tre funzioni: 1. mettere a disposizione, appunto, un ambiente semplificato, che consenta di avvicinarsi in modo progressivo alla realtĆ  sociale; 2. purificare l’ambiente, eliminando tutti quegli aspetti dell’ambiente sociale che sono negativi o pericolosi, e valorizzando invece quelli positivi; 3. consentire ad ognuno di avere rapporti che vadano oltre la sua ristretta cerchia sociale, favorendo l’equilibrio tra classi e gruppi sociali, ed offrendo possibilitĆ  di scambio umano e culturale che altrove non sono possibili. La scuola si occupa della crescita e dello sviluppo degli allievi.
Un errore comune ĆØ per Dewey quello di considerare i bambini, soggetti in crescita, solo negativamente, ossia partendo da ciĆ² che manca loro, confrontandoli con gli adulti. L’immaturitĆ  va invece concepita positivamente come “il potere di crescere”, la possibilitĆ  di cambiare e di imparare dall’esperienza, una capacitĆ  che appartiene tanto ai bambini quanto agli stessi adulti. L’educazione non ĆØ dunque il processo che fa di un bambino un certo tipo di adulto. Esso non si dirige verso un fine qualsiasi, non persegue alcuno scopo al di lĆ  della crescita stessa, della continua riorganizzazione e ricostruzione dell’esperienza. Il fine ed il processo sono tutt’uno.
Non ha senso, stando cosƬ le cose, stabilire lo scopo dell’educazione. Correttamente inteso, uno scopo non ĆØ imposto dall’esterno, secondo ciĆ² che l’educatore ritiene essere desiderabile, ma ĆØ pensato in base alle caratteristiche ed ai bisogni di ogni singolo individuo e deve consentire un migliore sviluppo delle sue capacitĆ  e facoltĆ . L’educatore non puĆ² proporsi nessuno scopo ultimo, cosƬ come l’agricoltore non puĆ² proporsi di raggiungere dei risultati senza tener conto delle condizioni concrete del suo lavoro. Entrambi pianificano le loro attivitĆ  osservando attentamente le condizioni esistenti e decidendo di volta in volta cosa ĆØ meglio, vale a dire cosa favorisce in modo piĆ¹ efficace la crescita.
Questa educazione libera dallo scopo, o meglio che libera l’esperienza adattando lo scopo alle condizioni concrete del soggetto in formazione, ĆØ pienamente possibile soltanto in una societĆ  democratica. Nel pensiero platonico, nota Dewey, si trova una prima coscienza dell’importanza dell’educazione per la creazione di una societĆ  ben ordinata. Ma Platone compie l’errore decisivo di costringere la varietĆ  infinita degli individui in tre sole classi sociali, con la conseguenza di tendere verso una societĆ  statica, nella quale nessun cambiamento ĆØ piĆ¹ possibile, una volta che si sia instaurato lo stato ideale.
Rousseau concepisce l’educazione come libero sviluppo delle facoltĆ  individuali conforme alla natura, unica via per liberare la societĆ  dalla sua corruzione, e guarda all’intera umanitĆ , oltre le differenze di classe e nazionali. Ma se la societĆ  ĆØ corrotta, non ĆØ possibile attribuire ad alcuna istituzione sociale il compito di educare, e si affida l’ideale all’azione sporadica e sostanzialmente inefficace di singoli individui.
Gli idealisti tedeschi dell’Ottocento al contrario riconoscono allo Stato la responsabilitĆ  di educare, ma con la conseguenza di un nazionalismo che fa dell’educazione nulla piĆ¹ che la formazione di cittadini sottomessi alle istituzioni, smarrendo il senso illuministico di una formazione puramente umana.
Dewey constata nel suo tempo (Democrazia e educazione ĆØ del 1916) il contrasto drammatico tra queste due tendenze, il cosmopolitismo che si esprime nella scienza, nel commercio e nell’arte, che non hanno ormai piĆ¹ confini nazionali, e l’acceso nazionalismo dei singoli stati, sempre pronti alla guerra per difendere i propri interessi. In una situazione simile il problema educativo, dal punto di vista istituzionale, diventa quello della possibilitĆ  di un’educazione statale che non formi al nazionalismo ed al classismo. Quella che occorre ĆØ una istituzione scolastica “di una vastitĆ  ed efficienza tali da eliminare di fatto e non solamente a parole gli effetti delle ineguaglianze economiche, e da assicurare a tutti i giovani del paese eguali possibilitĆ  per le loro carriere future”, e che non si limiti ad insegnare l’orrore della guerra, ma insista “su tutto quello che unisce i popoli e li proietta verso scopi e risultati comuni al di fuori delle limitazioni geografiche”. Senza questa apertura, afferma Dewey con forza, non esiste autentica e piena educazione democratica.

Il metodo e le discipline 


Una scuola democratica ĆØ tale soltanto se educa al pensiero, vale a dire ad un atteggiamento critico e riflessivo. PerchĆ© ciĆ² accada, ĆØ necessario considerare l’aspetto al tempo stesso attivo e passivo dell’esperienza. Fare un’esperienza vuol dire fare, tentare qualcosa, e in seguito sottostare alle conseguenze di questo tentativo, saggiarne le conseguenze positive o negative. L’esperienza non ĆØ dunque semplice conoscenza teorica di un oggetto, ma consiste in una relazione con l’oggetto che coinvolge sia mentalmente che fisicamente. Nella scuola questi due aspetti, attivo e passivo, fisico e mentale dell’esperienza, vengono separati, con conseguenze deleterie sia per il fisico che per la mente. Da un lato agli studenti si impone una immobilitĆ  innaturale, come se il movimento del corpo fosse un male da combattere, rendendoli irrequieti o apatici, dall’altro le idee reali, che non sono possibili senza una esperienza diretta delle cose, sono sostituite da idee verbali, da parole vuote e da teorie astratte. Si presentano loro conoscenze giĆ  ordinate e concluse, che non resta che far proprie con uno sforzo intellettuale. “Nelle scuole – scrive Dewey – si pensa troppo spesso che gli allievi siano lƬ per acquisire conoscenze da spettatori teorici, come menti che s’impadroniscono della conoscenza per mezzo dell’energia diretta dell’intelletto. La stessa parola allievo ĆØ venuta a significare quasi una persona impegnata non nell’avere delle feconde esperienze, ma nell’assorbire direttamente la conoscenza.”
PerchĆ© vi sia esperienza autentica, e quindi pensiero, occorre invece che si presenti una situazione problematica, incerta, in fase di sviluppo; il pensiero ĆØ esattamente ciĆ² che interviene sulla situazione per far sƬ che giunga ad una conclusione positiva. Se si vuole sviluppare il pensiero negli studenti, bisogna partire dunque dalla presentazione di situazioni problematiche, badando che siano problemi reali, avvertiti cioĆØ come tali anche dallo studente, e non pseudo-problemi escogitati dall’insegnante (il tradizionale problema di aritmetica). ƈ importante anche che simili situazioni problematiche siano in relazione con la vita comune e con gli interessi di tutti, in modo che fin dall’inizio della sua formazione il bambino si abitui a contribuire con la sua riflessione al progresso sociale. Un contributo essenziale per amplificare l’esperienza ed approfondirne tutte le implicazioni ĆØ dato per Dewey dalla storia e dalla geografia, a condizione che esse siano concepite nella loro connessione necessaria.
Tanto la storia quanto la geografia hanno a che fare con la vita associata degli uomini. La geografia ĆØ lo studio dell’ambiente e della natura, considerati come il campo dell’azione umana, mentre la storia non studia il passato, ma il rapporto tra il passato ed il presente, tra la realtĆ  attuale e le sue origini. Attraverso la storia e la geografia l’esperienza viene ampliata nello spazio e nel tempo e viene immessa nel vivo della piĆ¹ ampia impresa umana. Grande importanza ha poi, come ĆØ facile intuire, la scienza, che per Dewey ĆØ l’agente stesso dello sviluppo e del progresso, l’attivitĆ  che ha consentito agli uomini di ampliare le relazioni, di sottomettere le energie naturali, di aprirsi al futuro ed al cambiamento.
Coerentemente con il suo umanesimo naturalistico, Dewey contesta la separazione e contrapposizione tra scienza e discipline umanistiche. Pretendere che sia umanistico soltanto lo studio della letteratura e della storia vuol dire non aver compreso che non c’ĆØ sviluppo umano se non attraverso il dominio delle energie naturali, che a sua volta nasce dalla conoscenza scientifica. Separate artificialmente dalla scienza, le discipline cosiddette umanistiche si riducono allo studio sostanzialmente snobistico dei classici greci e latini. “La conoscenza – conclude Dewey – ĆØ umanistica nella qualitĆ , non perchĆ© riguarda i prodotti umani del passato, ma in virtĆ¹ di quel che fa per liberare l’intelligenza e la mutua comprensione umana. Qualsiasi argomento che raggiunge questo risultato ĆØ umano, e qualsiasi argomento che non lo raggiunge non ĆØ nemmeno educativo.”

L’educazione tra scienza e arte 


Grande importanza ha dunque la scienza tra i contenuti della formazione intellettuale. Ma ĆØ possibile condurre scientificamente lo stesso processo formativo? La pedagogia puĆ² essere considerata una scienza? Dewey affronta la questione nel volumetto Le fonti di una scienza dell’educazione (1929), uno dei documenti piĆ¹ importanti del dibattito epistemologico contemporaneo in campo educativo.
Se bisognasse scegliere di considerare l’educazione come arte o come scienza, afferma Dewey, bisognerebbe dire che essa ĆØ arte. Ma una tale scelta non ĆØ in realtĆ  necessaria, perchĆ© tra arte e scienza non esiste alcune antitesi. Qualsiasi arte si nutre di scienza, ne ingloba i risultati e li usa per migliorarsi. Nel caso dell’educazione, puĆ² accadere che, invece di utilizzare intelligentemente i risultati della scienza, si ricorra ad essa per trarne indicazioni normative o facili ricette o ancora per sostenere con la sua autoritĆ  il valore di questa o quella pratica. CiĆ² accade perchĆ© l’educazione ĆØ ancora in una fase di transizione dallo stato empirico a quello scientifico, e per gli insegnanti il raggiungimento di risultati immediati, tangibili, socialmente apprezzabili ĆØ ancora piĆ¹ importante dell’autentica ed approfondita comprensione dei problemi educativi.
Nella sua condizione di arte che si nutre di scienza, l’educazione assomiglia all’arte di costruire ponti. La costruzione di ponti ĆØ antica, e precede la nascita della matematica e della fisica. Queste scienze tuttavia hanno consentono di costruire i ponti con maggiore efficacia. Gli ingegneri che costruiscono i ponti traggono dalla matematica e dalla fisica le conoscenze che servono per la loro arte mettendole alla prova sul campo e scartando quelle che non risultano utili. Lo stesso si puĆ² dire dell’educazione: “Non vi ĆØ una scienza particolare e indipendente dell’educazione piĆ¹ di quanto non vi sia la scienza di gettare i ponti. Ma il materiale ricavato da altre scienze fornisce il contenuto della scienza dell’educazione quando vien centrato sui problemi che sorgono nell’educazione”.
La concreta prassi educativa pone dunque i problemi che bisogna indagare; ma a quali scienze bisognerĆ  ricorrere? Per Dewey contributi alla chiarificazione dei problemi educativi possono venire dalle scienze piĆ¹ diverse, dalla fisiologia all’economia, ma una importanza particolare va riconosciuta a tre discipline: la psicologia, la sociologia e la filosofia dell’educazione. PuĆ² sembrare che la psicologia e la sociologia debbano occuparsi, rispettivamente, di come gli studenti imparano (il mezzo) e di cosa devono imparare (il fine), ma questa distinzione ĆØ artificiosa, perchĆ© esiste una relazione necessaria tra mezzi e fini, tra psicologico e sociale. Psicologia e sociologia vanno pensate dunque in stretta connessione, e contribuiscono insieme alla comprensione del fatto educativo colto nella sua complessitĆ . E se ĆØ un errore introdurre nel campo educativo le misurazioni quantitative diffuse nella psicologia, poichĆ© esse riguardano sempre singole capacitĆ , con il rischio conseguente di ridurre la realtĆ  complessa dell’educazione a pochi fattori isolabili e quantificabili, un errore e un rischio anche maggiore ĆØ quello di conformare gli scopi e i valori dell’educazione a quelli diffusi nella societĆ , accertati con la statistica sociologica.
La societĆ , che ĆØ il risultato dell’educazione, non puĆ² costituirne il modello. Ugualmente errato ĆØ pensare che dei fini dell’educazione si occupi la filosofia dell’educazione. In realtĆ , i fini dell’educazione sono determinati nell’ambito della prassi educativa stessa, non dedotti da una filosofia dell’educazione. Chi fa educazione ĆØ portato naturalmente a riflettere sulla sua attivitĆ , ad indagarne le implicazioni e le conseguenze, ed ĆØ in questa riflessione che incontra la filosofia. Il contributo della filosofia consiste nel rendere la prassi piĆ¹ libera e consapevole, meno condizionata dalla tradizione e dalle abitudini.
Non sarĆ  sfuggita la centralitĆ  che Dewey riconosce a chi in concreto opera in campo educativo, la cui competenza in nessun modo ĆØ meno rilevante della conoscenza dell’esperto. ƈ da deplorare, osserva, che gli insegnanti non siano chiamati a contribuire all’approfondimento scientifico dei problemi dell’educazione. Essi sono a diretto contatto con gli studenti, ed ĆØ attraverso il loro lavoro che la acquisizioni scientifiche si fanno pratica reale. Se non vengono coinvolti attivamente, questa applicazione pratica risulterĆ  per forza di cose deformata e svilita.
Emerge da questo discorso il profilo di un docente ricercatore, che conosce dal vivo le difficoltĆ  ed i problemi dell’educazione e li pone come temi di ricerca, dando avvio alla riflessione critica che ricorrerĆ  al contributo delle scienze e che metterĆ  capo a soluzioni che sarĆ  lui stesso a verificare sul campo.

ContinuitĆ  e interazione 


Le idee pedagogiche di Dewey hanno ispirato non pochi esperimenti di scuole nuove. Non tutti i suoi continuatori ed estimatori, tuttavia, ne hanno compreso pienamente il messaggio; in qualche caso le loro iniziative educative hanno assunto un carattere estremistico, e per questo Dewey ha avvertito il bisogo di prenderne le distanze, precisando i caratteri del suo pensiero. Lo ha fatto con Esperienza e educazione (1938), un’opera che per Ernesto Codignola “arieggia un po’ il Canto del Cigno del Pestalozzi”. Dewey vi conferma la critica ferma alla pedagogia ed alla scuola tradizionale, che prescindono dall’esperienza ed impongono dall’alto dei contenuti culturali, ma non risparmia ora critiche anche alla pedagogia che si definisce progressista, che in qualche caso ĆØ il semplice rovesciamento di quella tradizionale. Se la vecchia scuola ĆØ fortemente organizzata, la nuova sarĆ  disorganizzata; se essa ĆØ autoritaria, la nuova scuola farĆ  del tutto a meno del principio di autoritĆ ; se essa ĆØ centrata sulle materia di studio, la nuova scuola rinuncia ad esse in nome dell’esperienza.
Scrive Dewey: “I problemi non solo non sono risolti, ma non sono neppur posti, fino a che si ammette che basta ripudiare le idee e le pratiche della vecchia educazione per buttarsi all’estremo opposto”.
Per chiarire i criteri di un’educazione antitradizionale che non cada nell’eccesso del libertarismo, Dewey torna a discutere il criterio dell’esperienza. Che l’educazione debba partire dall’esperienza ĆØ un punto irrinunciabile della sua pedagogia. Ma che cos’ĆØ in concreto un’esperienza educativa? Non basta evocare l’esperienza per risolvere i problemi dell’educazione, perchĆ© vi sono anche esperienze che non sono educative.
E allora: cosa distingue un’esperienza educativa da una che non lo ĆØ? Dewey individua due criteri.
Il primo ĆØ quello della continuitĆ . Sono da ritenersi educative quelle esperienze che rendono possibili nuove esperienze, che permettono di crescere in molte direzioni, mentre non lo sono quelle che bloccano l’esperienza e rendono la crescita unilaterale. Anche il banditismo e la corruzione politica, osserva Dewey, sono esperienze, ma non si puĆ² dire che esse favoriscano la crescenza, termine con cui indica il pieno sviluppo (fisico, intellettuale, morale) dell’individuo. Sono esperienze educative quelle che conducono ad un arricchimento generale della vita individuale, che aprono nuove vie all’esperienza, mentre sono antieducative quelle che fissano l’individuo in un ruolo, che mutilano la sua esperienza ulteriore, che ne mortificano la vita come libero svolgimento e ricerca continua.
Il secondo criterio ĆØ quello dell’interazione. Ogni esperienza autentica ĆØ caratterizzata dall’interazione tra fattori interni, individuali, e fattori esterni, sociali ed ambientali. Non ĆØ esperienza educativa la semplice imposizione di qualcosa dall’esterno, come avviene nell’educazione tradizionale, ma non lo ĆØ nemmeno la subordinazione di tutti i fattori esterni ed ambientali alle esigenze interne. Indubbiamente ĆØ sbagliato non considerare i bisogni di un bambino piccolo di nutrirsi, dormire eccetera, ma ĆØ ugualmente sbagliato rinunciare del tutto a regolare la nutrizione e il sonno, per non interferire con il libero soddisfacimento dei bisogni infantili. Un intervento realmente educativo dovrĆ  mettere insieme, far interagire le due cose, i bisogni del bambino e le richieste dell’ambiente, cercando di regolare il sonno e la nutrizione con equilibrio, armonizzando interno ed esterno, esigenze dell’individuo e richieste dell’ambiente.
Le scuole nuove sono scuole che educano alla libertĆ . Sarebbe tuttavia un errore, per Dewey, considerare la libertĆ  solo nel suo aspetto negativo, come liberazione da qualsiasi pressione esterna, che ĆØ insufficiente se poi si cade preda del disordine degli impulsi interni. Una persona realmente libera ĆØ una persona capace di autocontrollo, che sa disciplinare i propri impulsi con la riflessione e trasformarli in propositi, ossia in piani di azione diretti verso un fine, che tengono conto di tutte le circostanze e sono corroborati da ragionamenti. Un insegnante che, come accade in alcune scuole nuove, evita persino di dare suggerimenti agli studenti sul modo in cui potrebbero usare il materiale di studio, per timore di influenzarli e di limitare la loro libertĆ , viene meno al suo compito, che ĆØ quello di aiutare gli studenti ad essere liberi nel senso che si ĆØ detto. Non dunque l’insegnante tradizionale, che dirige lo studente dall’esterno, ma nemmeno un insegnante che viene meno al suo ruolo, abbandonando gli studenti a se stessi. L’insegnante dovrĆ  invece offrire agli studenti il suo contributo – il contributo di una persona con piĆ¹ esperienza, non gerarchicamente superiore – per favorire la nascita di propositi comuni, ossia la ricerca comune di una liberĆ  autentica.

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